Il vento del nord scorreva leggero lungo un oceano di smeraldo, accarezzando dolcemente la propria pargola flora, come la mano premurosa di un padre.
Al suo delicato contatto steli d'erba e fiori dalle più svariate sfumature della primavera si muovevano come nell'esecuzione di una leggiadra danza di iniziazione alla nuova stagione, dando così l'addio ai tempi freddi di un ormai passato inverno.
La pianura di Falaisia si sviluppava per diverse leghe e gli alberi di betulla le facevano da cornice, accompagnando il vento col placido dondolio dei loro tronchi snelli, dalle scorze bianche e sottili, segnate dalla giovinezza che abbracciava l'intera vegetazione.
I loro rami ricadevano con eleganza, lasciandosi trasportare dalla fresca atmosfera. Ognuno dava così origine a nuovi tralci che, man mano, si espandevano con piccole foglie dalle frivole forme ovate, sfumate nel colorito verde chiaro cristallino della clorofilla.
Esse, tremanti, si inserivano timidamente nella danza, porgendo il loro omaggio di fiori al sole, tornato a illuminare i loro esili corpi, mentre candide pigne si disfacevano al soffio del vento, rilasciando i primi disseminuli nell'aria frizzante.
L'intera pianura era avvolta da un piacevole silenzio, accompagnato solo dal felice cinguettare di qualche pettirosso in amore e da quel soffio del vento che scorreva spavaldo, avvalendosi della propria libertà imponderabile.
Ogni più piccola vita pareva completamente immersa in quella pace beata, come se ciascuna facesse parte di un unico e infinito corpo dal respiro meditativo.
Fu un improvviso ruggito a spezzare quell'armonia regalata dalla primavera.
Il vento ne percepì la vibrazione in contrasto con la propria, cambiò così direzione spostandosi in modo vago, quasi fosse preso dall'indecisione.
Uno stormo di pettirossi si alzò in volo non appena un'enorme creatura di forma felina dal pelo lungo e liscio, scuro come ebano e frastagliato da strisce bianche, si stagliò sotto il loro ramo a grandi balzi, senza fermarsi davanti agli ostacoli, saltando e schivando flessuosamente ogni intralcio.
Era incredibile come la sua presenza non fosse intorno avvertita: le possenti zampe sfioravano il terreno senza provocare il minimo fruscio di felci e i rami che incontrava si spostavano impercettibilmente al suo passaggio.
Pareva un'ombra che sfuggiva al tocco fatale della luce, come un fantasma vagabondo in cerca dell'introvabile destino, o forse era una creatura incorporea, che si muoveva con disinvoltura e decisione fino a lasciare la zona coperta della pianura per correre libera lungo iarde di terreno pianeggiante e incolto.
«No Mawa! Siamo troppo esposti!..»
Una voce femminile di provenienza incerta, bianca come la voce di un angelo dal cielo, diede l'ordine e quella che pareva una tigre possente lo eseguì tempestivamente, esibendosi in pochi, maestosi balzi per tornare fra gli alberi, finché una seconda e simile bestia, dal pelo più chiaro e ambrato, la raggiunse, ostacolando la sua corsa.
Mawa si fermò di colpo, non appena l'avversario si pose innanzi a lui impassibile e, per pochi istanti, parve confuso, ma conservò il proprio sguardo freddo e deciso, mostrando le lunghe zanne e ringhiando sommesso, mentre i suoi spiccanti occhi viola come ametista osservavano imperscrutabili quelli ocra del suo simile.
«Presa!»
Un'altra voce di bambino, stavolta maschio certamente, e l'altra sospirò sconfitta: «Dannazione!»
Dalla schiena sinuosa del primo animale smontò l'esile bimba, con un flebile lamento. Come la sua voce, anche lei pareva più una figura angelica che umana. I suoi lunghi capelli erano neri e lucidi come legno smaltato, sorprendentemente lisci, le ricadevano sulle spalle leggeri, rimembrando la seta, mentre una ciocca le copriva a tratti il viso. Si intravvedevano gli occhi, di un azzurro chiarissimo come quello stesso cielo, da cui si supponeva la remota provenienza, eppure erano di una luce dura e penetrante mentre fissavano la seconda creatura felina.
L'abbigliamento di lei tolse ogni dubbio riguardo la sua origine umana: la vita smilza era vincolata con un cinturone in grezzo pellame, da cui pendeva a un fianco il fodero di un corto pugnale fatturato artigianalmente, dall'impugnatura in cuoio segnata per l'uso frequente, mentre all'altro lato vi erano le bisacce dei medicinali e dei coltelli da lancio. Lungo la stretta della cinta ricadeva una tunica bianca e insozzata di terra, attraverso il cui delicato panneggio, quasi privo della presenza di chiaroscuro, era percettibile la forma snella del corpo indossante; intanto il cappuccio venne riportato sul capo, dopo che la forza del vento in corsa l'aveva fatto scivolare dal volto di lei, ora questo era di nuovo occultato dalla rassicurante ombra, così che i delicati lineamenti non fossero più accolti dalla luce opportunista.
Infine lunghi pantaloni in pelle nera e concia erano osservabili attraverso l'apertura a V rovesciata della tonaca, strappati in più punti, da cui si intravedeva la pelle chiara, e infilati in compatti stivali rifiniti in bronzo. Come poteva un angelo appesantirsi in modo simile? Solo l'arco lungo in legno di tasso, protetto dal caldo in un'ampia guaina legata in grembo, e la faretra posta sulla schiena davano alla ragazza l'aspetto divino e il portamento affascinante che da sempre è l'immagine perfetta dei custodi celesti.
«Il tuo iguaro ha quasi rischiato di essere coinvolto dalla corsa di Mawa. Siete stati fortunati che lui abbia sempre i riflessi pronti!» disse con tono di sfida, accarezzando orgogliosa il muso dell'iguaro amico che ricambiò leccandole la mano affettuosamente.
«Una semplice bestia selvaggia che cerca via di fuga avrebbe fatto meno attenzione al vostro braccaggio.»
Ora fu il ragazzo a lasciare il posto sulla schiena del felino, saltando a terra e trovando subito l'equilibrio sul morbido terreno erboso, che rimase muto al suo atterraggio.
«Non ti preoccupare, Zana sa quello che fa!» rispose deciso, avvicinandosi alla bimba e creando tra i due un grande contrasto di fattezze: i suoi capelli erano chiarissimi, un biondo talmente intenso che poteva intimorire anche i raggi del sole, mentre dei piccoli occhi dai colori curiosi sfavillavano tra le ciocche ribelli: il destro era di un piacevole verde acqua sgargiante, l'altro pareva invece nero, non fosse per le lievi sfumature scarlatte che definivano la forma di una piccola pupilla leggermente allungata. Occhi particolari, in cui ci si poteva perdere per ore semplicemente osservandoli, confortati dal senso di sicurezza che traspariva dal giovane sguardo.
Era vestito similmente alla compagna, ma sembrava meno ossessionato dal pacato anonimato che solo il cappuccio delle loro vesti poteva consentire, ed egli, al posto del pugnale, padroneggiava due sottili e lunghi stiletti, dalle lame lievemente graffiate, eppure ancora pericolosamente affilate, che pendevano verticalmente aderendo ai lati dei pantaloni.
Entrambi non dimostravano più di dodici o tredici anni all'apparenza, eppure non provavano alcun timore nel trovarsi soli in mezzo al verde più selvaggio. Sembravano anzi completamente a proprio agio.
I due iguari, citati come Mawa e Zana, si scrutarono qualche istante. Mawa era poco più basso dell'altro, la sua corporatura era però più magra e slanciata con un muso allungato, il tutto a suggerire che tra i due fosse quello che trovava meno difficoltà nel muoversi agilmente; Zana compensava con la sua robustezza, il suo corpo massiccio doveva aver sopportato grandi sforzi e resistito a numerose lotte, ma fra il pelo castano, strisciato di bianco, non c'era una sola ferita, vecchia o recente, a testimoniare eventuali scontri precedenti.
I due bambini, proprietari delle belve, continuavano a confrontarsi. Lei alzò la guaina in pelle che teneva a tracolla e sfilò l'arco che vi era contenuto, quindi cominciò a unire le parti terminali dei due estesi e stretti flettenti tramite una corda, composta da un insieme di fibre naturali di lino attorcigliate, capaci di sopportare una moderata forza di trazione - ovvero quella massimale esercitata dalle braccia allenate della ragazzina - ma che avrebbero comunque assicurato buona robustezza ed elasticità anche nelle mani di un uomo adulto. Quando fu soddisfatta del proprio lavoro disse spavalda: «Certo!.. Se lo dici tu, Evrard .»
Portò quindi un braccio dietro la testa per raggiungere la faretra e prese fra due dita l'impennatura di una delle frecce, tutte dotate alla cocca di piume colorate quali stabilizzatrici, la estrasse con agilità poggiandola sul riser e si allontanò nell'alta vegetazione senza dare l'opportunità a Evrard di replicare.
Il ragazzo controllò l'incordatura del proprio arco già pronto, sincerandosi che l'umidità non ne avesse compromesso la saldatura, dunque la seguì senza dire altro, per breve tempo.
«Il Maestro non sarà certo contento della nostra scomparsa dovuta al gioco!» sussurrò facendosi strada fra le felci «Sarà meglio trovare qualcosa di buono, le scorte di cibo sono al termine e non manca molto alla partenza.. se riuscissimo a cacciare qualcosa forse saremo perdonati, giusto?» ma dal folto sottobosco non arrivò alcuna risposta, della giovane non vi era più alcuna traccia. Che l'angelo fosse tornato nel suo regno celeste?
Evrard non si pose domande tanto sciocche, piuttosto si sentì inevitabilmente innervosire, ben poco abituato a rimanere ignorato.
«Somnia, mi hai sentito?» aggiunse quindi con insistenza rivolto agli alberi innanzi, ma venne subito zittito da un improvviso: «Shhh, guarda là.» che lo fece sobbalzare, dandogli però l'occasione di individuare la posizione della compagna. Somnia si trovava fra i sottili rami di un cespuglio, perfettamente camuffata con l'ambiente selvaggio a tal punto da sfuggire anche agli occhi attenti del giovane alleato.
Ripresosi dalla sorpresa fu subito solerte; raggiunse la ragazza e si chinò al suo fianco. Guardò quindi dove il dito di lei stava indicando, dopo essersi posato sulle labbra sottili in segno di silenzio.
Appena si accorse di cosa fosse stato avvistato dalla compagna, Evrard sussultò una seconda volta. «Questo è buono!»
A poche braccia di distanza c'era uno strano animale che si abbeverava a un ruscello.
Pareva un cervo, ma le sue corna si estendevano ai due lati del capo come spuntoni d'avorio, particolarmente appuntiti e ricurvi fluidamente all'indietro, seguendo sinuose linee che ricordavano decorazioni di antica fattura e abilità; il muso della creatura era molto affusolato, quasi a becco, mentre occhi piccoli e neri spiccavano sul manto bianco, svegli e attenti; sulla fronte tondeggiante spuntava un ciuffo di peli più scuri, esaltati da nove sottili corna disposte simmetricamente, mentre i medesimi peli erano sulla punta delle orecchie, queste piegate all'indietro in un'evidente posizione rilassata. Una lunga e chiara coda si scuoteva nervosamente, allontanando gli insetti.
L'animale sembrava non aver percepito la presenza dei due ragazzini, infatti continuò a raccogliere con la lingua grandi sorsate d'acqua cristallina.
Somnia tese l'arco, come per studiare l'animale dalla punta della propria freccia incoccata, eppure non era intenzionata a scagliarla, infatti l'accompagnò mollando piano la corda, dopo di che si volse indietro e un quasi impercettibile fischio si schiuse dalle sue labbra, richiamando a sé Mawa.
L'iguaro la raggiunse con il suo sorprendente passo felpato, sedendosi a poca distanza da lei e attendendo paziente. La bimba ripose la freccia e si avvicinò salendogli in groppa, prontamente Mawa si rialzò sulle quattro zampe.
«Chiama Zana, con questo ci sarà da lavorare anche per loro.» suggerì quindi ad Evrard.
Egli annuì e imitò i gesti della compagna, mentre il grosso iguaro castano ubbidiva; ne raggiunse quindi la schiena sinuosa per poi accostarsi a Somnia e al suo felino destriero.
«Cosa intendi fare?» domandò alla ragazzina con sguardo incerto mentre questa teneva gli occhi chiari fissi sul grosso cervo ancora chino sul percorso del ruscello.
«Incocca una freccia nera e seguimi. Quando sarà il momento saprai come usarla.» si limitò a spiegare lei, mentre l'iguaro bruno cominciava a muoversi silenziosamente tra il folto sottobosco, avvicinandosi sempre più al ruscello.
Il ragazzino pareva comprendere a cosa corrispondesse la vaga definizione di "freccia nera", sfiorò quindi l'impennatura di una specifica, estraendola con fluidità dalla faretra, mentre Zana seguiva il suo simile, ma senza ottenere lo stesso effetto smussato tra le felci.
Fu così che, percepita la presenza nemica, lo pseudo-cervo drizzò improvvisamente le lunghe e candide orecchie verso l'alto e fermò ogni movimento; anche la coda smise di scuotersi, mentre il collo teso si alzava lentamente e le narici si dilatavano fiutando l'aria. Gli occhi neri erano fissi innanzi a sé, all'erta.
Il sole cominciò a rischiarare l'erba di una piacevole sfumatura rosata, rendendo le eleganti chiome delle betulle come un uniforme velluto scarlatto, di friabile spessore sotto il tocco delicato del vento: era quasi il tramonto. E ora, destrezza, furbizia e precisione avrebbero fatto la differenza nel portare a termine una caccia, buona o cattiva, al calar del sole.
Fu al richiamo di lei che Mawa scattò in avanti maestoso. Le sue zampe anteriori si conficcarono nel terreno con forza, sollevando inevitabilmente grandi zolle di terra che crearono alle spalle di Somnia una pioggia densa e marronea. La creatura acquistò la giusta spinta, guadagnando velocità verso la propria preda.
In quel momento l'affusolato animale bianco non si lasciò prendere di sorpresa. Spiccò prontamente un balzo, superando il ruscello e galoppando verso la pianura di un verde sgargiante.
Non fu da meno l'ultimo e più massiccio componente della battuta di caccia, Zana, che inforcò una direzione opposta a Mawa per inseguire il cervo da un altro fronte, più favorevole al vento, mentre il suo cavalcatore manteneva l'equilibrio con la sola forza delle cosce. Ad Evrard non costava sforzo quel gesto, alzò con facilità l'arco e tenne prontamente sotto tiro la scalpitante preda in lontananza.
La freccia incoccata era nera, liscia, decorata da scritte bianche di elegante calligrafia, formanti una spirale, dalla punta di ferro ben affilata, fino al termine del sottile corpo. Sull'estremità finale erano disposte due metà di piume, una bianca e una iridescente, che cambiava sfumatura a ogni mutamento di luce.
Più avanti Somnia si costringeva a rimanere lucida, ma per lei fu un'impresa ardua: una grande ed inarrestabile adrenalina le faceva battere forte il cuore. Era la spensieratezza che solo correndo sul suo fidato iguaro poteva provare, mista a quel desiderio di tirare fuori il meglio di sé e dimostrarsi la migliore. Si sentiva trasportata dal vento, era il vento. Forte e irrefrenabile. Finalmente aveva ritrovato le proprie ali.
Fu più forte di lei, levò un urlo entusiasta che si espanse per la piana, mentre l'iguaro veniva spronato a fare un immenso balzo che coprì numerosi metri di terreno, i quali diminuivano a vista d'occhio col distacco dalla preda.
«Esibizionista!» sussurrò fra sé Evrard, ma un dolce sorriso affiorò sulle sue labbra, mentre osservava l'iguaro nero correre ora fianco a fianco del pallido cervo.
Quindi fu un attimo: l'aria venne improvvisamente tagliata dal passaggio fulmineo della freccia, scagliata dopo un attento studio dell'andatura fluida e leggiadra della preda lì innanzi.
«E' tutto tuo Somnia, cerca di non fartelo sfuggire proprio ora!»
Durante la sua corsa verso il bersaglio, le scritte e le piume iridescenti riportate sull'esile corpo si illuminarono, facendo brillare ogni singola runa e filamento: era un dardo lucente.
Il bagliore emanato aumentò, emulando perfettamente la forza di un pieno raggio di sole, e divenendo presto accecante.
La freccia però non era direzionata contro la preda, si conficcò invece innanzi ad essa, rallentando la sua fuga grazie all'effetto stordente dell'incantato oggetto appuntito, il quale non aveva infatti un uso direttamente offensivo, ma da efficiente diversivo. Veniva comunemente definita freccia nera per l'ambiguo colore di cui era intinta, una tempera speciale ricavata dalla spremitura di un frutto poco conosciuto ma dalle grandi potenzialità per l'uso in guerra, e quindi trattato molto raramente per la verniciatura delle frecce da caccia, le quali erano ben spesso più cangianti e semplici, di certo non con una formula arcana dipinta sull'asta.
E così, mentre il bagliore raggiunse il picco, Mawa aveva già distaccato nuovamente il cervo, superandolo nel momento in cui esso aveva frenato il galoppo per evitare il bagliore accecante. Pareva una strategia ben costruita, basata sull'esperienza e ripetuta più volte, perché l'iguaro si aggrappò prontamente con gli artigli retrattili al terreno per frenarsi e voltarsi di scatto, senza alcuna difficoltà recata dal previsto attacco di Evrard.
Ora Somnia aveva un facile compito, che avrebbe svolto con stile proprio. Estrasse tre identiche frecce dorate dalla faretra, riconoscendole al tatto tramite il lungo pennaggio, le incoccò insieme e non perse tempo: le scagliò contro il bianco bersaglio approfittando della sua posizione rampante.
La bestia, dopo l'attacco di Evrard , si era eretta sui soli due zoccoli posteriori, scalciando con quelli anteriori alti al cielo. Scalpitante e spaventata, pose allo scoperto il torace non protetto dalla candida peluria.
Le tre frecce volarono allineate, a grande velocità quando, all'improvviso, una luce del medesimo colore dei loro corpi le avvolse uniformemente. Il forte bagliore era però diverso da quello rilasciato dalla freccia nera, esso prese infatti la forma di un uccello, dalle immense ali e dalla lunga coda. Una fenice.
Il grosso animale fu allarmato dalla sua inattesa presenza, mentre questa planava diretta, inarcando le ali e spalancando il becco d'oro in un muto grido. L'impatto fu inevitabile e il mitologico uccello trapassò astrattamente la propria preda, disperdendosi poi in fasci di luce perlacei e cenere, che si dissolsero al vento.
Quando il bagliore dorato calò, della fenice non rimasero che le tre frecce invocatrici, conficcate nel petto della vittima, che perse inevitabilmente l'equilibrio, cadendo rovinosamente a terra.
Mawa si avvicinò cauto, raggiunto da Zana.
«Lo abbiamo abbattuto?» chiese Evrard incerto. Dalla sua voce traspariva tutta l'emozione di una caccia prossima al termine con successo.
«Direi di sì.» rispose Somnia in tono piatto, scendendo dalla groppa del proprio iguaro e raggiungendo il grosso animale a passo svelto e sicuro.
S'inginocchiò innanzi al torso sanguinante e privo di movimento, assicurandosi l'arco alla spalla. «Non respira.» Estrasse le tre frecce e le studiò con occhio impassibile, mentre queste emanavano uno strano calore. Le ripulì dal sangue utilizzando una garza di cotone imbevuta d'olio di mandorla, infine le ripose nella faretra, quindi si volse verso il compagno «Ottimo lavoro!»
Sulle sue labbra affiorò un sorriso compiaciuto, subito ricambiato da Evrard, soddisfatto e orgoglioso di sé.
Quando la raggiunse, Somnia gli indicò il petto, completamente privo dei peli bianchi e sottili che invece dominavano sulla schiena della creatura.
«Questo è un bragh.» spiegò, anticipando ogni domanda che Evrard era pronto a farle «Il suo manto è molto compatto, può resistere agli affondi meno convinti delle lame e alla punta delle frecce, ma non tutto il suo corpo ne è ricoperto.» concluse quindi con tono soddisfatto per quell'informazione di cui era a conoscenza, quindi un lieve sorriso furbo accompagnò le parole seguenti: «Ci guadagneremo una fortuna..»
Evrard guardò a lungo il grosso bragh, poi prese a parlare: «Come fai a sapere certe cose?»
La ragazzina si rialzò, stiracchiandosi le braccia e osservando il cielo sfumato del tramonto.
«Ti sorprendo?» chiese invece lei, continuando a rivolgere gli occhi verso il sole basso.
«Un po'.» rispose Evrard, lasciando il posto a fianco del bragh e avvicinandosi a Somnia.
Bastarono pochi minuti, e i due poterono assistere a un stupendo tramonto, i cui colori viravano dal rosso all'arancione, al giallo più intenso, con qualche spiraglio rosato, finché un cupo blu non si insinuò nel caldo cielo, portando via il sole che scomparve oltre la linea dell'orizzonte e lasciando il posto a una falce di luna splendente, che provocò un brivido alla ragazzina, non del tutto inaspettato.
Stava per voltarsi e raggiungere Mawa quando improvvisamente due figure, sfiorate dal bagliore lunare, si addentrarono lungo il suo campo visivo, avvicinandosi a grande velocità.
«Oh no! Eccoli.»
Evrard notò a sua volta gli individui, il suo volto cambiò di espressione, quindi estrasse una benda e se la legò intorno alla nuca, inclinandola leggermente perché coprisse l'occhio sinistro.
Due rochi ululati giunsero unisoni dalla linea indistinta di betulle espandendosi per la pianura, seguiti poi da quelli di Mawa e Zana.
..continua
[Modificato da andrea997 23/07/2008 11:41]