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LA REPUBBLICA
24 agosto 2006
Il potere dei magistrati e le pretese della politica
STEFANO RODOTA

"Un giudice ha avuto successo dove 535 parlamentari avevano fallito". Così il New York Times ha commentato la decisione con la quale un giudice federale di Detroit ha dichiarato illegali le intercettazioni praticate dall´amministrazione Bush. Una decisione che andrebbe letta integralmente, in tutte le sue 44 pagine, perché la qualità dell´argomentazione tecnica mostra i principi e le radici che la democrazia non può rinnegare e sottolinea come la ricerca di un ragionevole equilibrio tra libertà e sicurezza mai può fondarsi su abusi da parte dei governanti. Negli stessi giorni, una giuria federale di New Orleans ha concesso un risarcimento del danno di 51 milioni di dollari ad un ex-agente dell´Fbi che aveva sofferto di gravi disturbi cardiaci provocati dall´uso di un farmaco della Merck, il Vioxx; ed un giudice del Distretto di Columbia è tornato a mettere sotto accusa la pubblicità dei produttori di sigarette. Una volta di più, dunque, la magistratura appare come strumento indispensabile per reagire agli abusi del potere politico e del potere economico.
Una volta di più, perché siamo di fronte ad una conferma, non ad una novità. Dalla situazione dei prigionieri di Guantanamo fino ai passati casi di tortura in Israele sono sempre stati giudici a difendere la legalità democratica e le libertà delle persone. Dell´importanza di tutto questo molti non si avvedono, e anzi accusano anche le corti costituzionali di non aver compreso la durezza dei tempi e le esigenze della lotta al terrorismo. In modo sbrigativo e aggressivo, per respingere la sentenza sulle intercettazioni telefoniche, si è detto che il giudice che l´aveva pronunciata era stata nominata da un presidente democratico, Jimmy Carter, ed aveva notorie propensioni liberal. E così, per delegittimare una decisione sgradita, non ci si avvede della pericolosità dell´argomentazione adoperata. Adottando questa logica, si può in ogni momento revocare in dubbio la legittimità della prima elezione di George W. Bush che, come tutti ricordano, prevalse su Al Gore solo per un voto a maggioranza di una Corte Suprema di orientamento conservatore e in cui prevalevano giudici nominati appunto da presidenti repubblicani.

Ricordo questi fatti perché il tema dei rapporti tra giustizia e politica, o più propriamente del ruolo della magistratura nei sistemi democratici, sarà ai primissimi posti nell´agenda politica d´autunno, in un panorama che più sconsolante non potrebbe essere. Abbiamo dietro le spalle una legislatura sprecata, anzi scientemente adoperata per un politica giudiziaria tesa a esasperare i conflitti e a non cercare iniziative diverse da improprie riduzioni dell´indipendenza dei magistrati. Il problema capitale dell´efficienza non è stato al centro dell´attenzione, come avrebbe dovuto: anzi, le analisi delle conseguenze di alcune nuove leggi e della riforma dell´ordinamento giudiziario, approvate dalla Casa delle libertà, hanno mostrato come siano destinate a rendere ancora più lunghi i tempi dei processi. I magistrati non hanno ricevuto strumenti più moderni, malgrado gli annunci del 2001 di un Berlusconi che si presentava come il Grande Codificatore, paragonandosi esplicitamente a Giustiniano e Napoleone.
L´elezione all´unanimità di Nicola Mancino alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura fa sperare in un clima diverso. Ma il clima dev´essere tradotto in sostanza. E questo vuol dire profondo cambiamento di marcia sulla riforma dell´ordinamento giudiziario; cancellazione di alcune leggi che, concepite ad personam, hanno prodotto guasti permanenti nel sistema penale e processuale; riforma del codice penale che renda anche possibile una politica che non si affidi tutta alla sanzione carceraria; provvedimenti radicali per promuovere l´efficienza; l´accettazione di suggerimenti come quelli di Antonio Cassese (che ripropone la logica delle "riforme senza spese" care a Guido Calogero e a Il Mondo degli anni Cinquanta) perché l´Italia adempia agli obblighi legati alla Corte penale internazionale e alla Convenzione sulla tortura, e approvi una legge che consenta la riapertura dei processi per i quali la Corte di Strasburgo abbia accertato una violazione.
Il mutamento del clima, però, deve riguardare soprattutto la cultura, altrimenti sarà difficile fare passi nella direzione giusta. La regressione culturale di questi anni è impressionante. La storia della magistratura italiana è stata falsificata, per accreditare un´età dell´oro liberale mai esistita, alla quale avrebbe fatto seguito un totale egemonia della sinistra. È calato il silenzio sulle molte, serie ricerche che storici di diverso orientamento avevano condotto sui rapporti tra magistratura e poteri politici ed economici, sui reali condizionamenti culturali. Si è appannata la stessa capacità di riflessione critica dei magistrati, costretti ad una incessante, e indispensabile, azione difensiva di fronte ad attacchi continui e ad una generale opera di delegittimazione.
Il punto centrale rimane quello indicato all´inizio. Qual è, oggi, il ruolo della magistratura nei sistemi democratici? Dalla risposta a questo difficile interrogativo dipende il modo in cui s´intende e si costruisce il rapporto tra la magistratura e le altre istituzioni, dunque la distribuzione delle funzioni all´interno dello Stato; tra la legge e la giurisdizione; tra i valori costituzionali e l´attività giurisdizionale quotidiana, snodo essenziale nel momento in cui le diverse magistrature sono chiamate a fronteggiare, quasi sempre prima del Parlamento, le difficili questioni incessantemente poste dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche.
Sottolineo subito un punto di particolare rilevanza. Una meritoria ricerca condotta da Magistratura democratica, appena pubblicata e segno incoraggiante appunto di un mutamento di clima, ha documentato i numerosi casi in cui giudici di diversi paesi, Italia compresa, hanno fatto riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, pur non dotata ancora di valore giuridico vincolante (tra parentesi: i casi analizzati mostrano come la Carta sia stata utilizzata quasi esclusivamente per la tutela dei diritti sociali, smentendo la tesi, tutta ideologica, di una sua natura puramente razionalizzatrice della logica di mercato). Quale conclusione trarne? Sono i giudici che, nel silenzio della politica, stanno "facendo l´Europa", costituendo una forza dinamica che fa procedere la costruzione europea su quel terreno dei diritti che meglio può contribuire al manifestarsi di una identità aperta al mondo ed alle sue novità? Comunque sia, i giudici mostrano d´essere capaci di cogliere appunto le novità e di rinnovare i loro strumenti.
Spero che, per analizzare questa vicenda, non ci si impigli per l´ennesima volta nel riferimento alla "supplenza giudiziaria". Assistiamo da anni, non solo in Italia, ad una riorganizzazione dei poteri istituzionali in cui s´intrecciano dinamiche diverse, a cominciare da quelle legate al controllo di costituzionalità che ha ridimensionato lo stesso potere dei parlamenti. Con varie tecniche, è stato il legislatore ad ampliare l´area e le modalità dell´azione giudiziaria, in particolare per la lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata o per avviare una giustizia internazionale, con evidenti implicazioni politiche. La magistratura, peraltro, si è ormai stabilmente caratterizzata come "istituzione di frontiera": è il luogo dove si scaricano immediatamente tutte le tensioni, con il rischio anche di trasformarsi in "pattumiera dei conflitti sociali"; si registrano contaminazioni crescenti tra il tradizionale modello continentale e quello di common law, dove storicamente è stata più forte la posizione del giudice; si colgono il mutamento della natura della legge e il concorso di fonti giuridiche diverse (sopranazionali, nazionali, regionali), che complicano l´attività giudiziaria, ma allargano pure i poteri interpretativi del magistrato. Soprattutto, l´attenzione crescente per la tutela dei diritti fondamentali e il riferimento ai principi costituzionali portano con sé una richiesta forte di legalità quotidiana, così come la crescita della domanda di regole trova nel giudice il primo interlocutore. Da tutto questo nasce il nuovo ruolo "politico" della magistratura, non da sue pretese egemoniche.
La relazione tra politica e giustizia si è certamente fatta più complessa, difficilmente analizzabile solo con categorie del passato. Per comprenderla, serve un dibattito pubblico lontano dalla forzature degli ultimi anni, capace di identificare la reale funzione della magistratura e di mettere questa in condizione di esercitarla correttamente, libera anche da compiti ormai impropri. L´espansione globale del potere giudiziario non può essere governata da un´impossibile pretesa della politica di riassumere tutto in sé, bensì da regole che tengano conto delle attribuzioni nuove che ormai caratterizzano la magistratura.



INES TABUSSO